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Lathe biosas, una riflessione tra sovraesposizione tecnologica ed ecologia delle emozioni.

[la confessione di una foodblogger nel vortice del tempo alla ricerca del qui ed ora]

C’è qualcosa dentro di me che ruggisce… e sillaba: lathe biosas, vivi nascosto, per scomodare Epicuro.
Questa è una confessione: io non riesco ad essere esposta, non riesco ad essere social, non amo la dipendenza da tecnologia, non sono insomma adatta agli standard bulimici richiesti in un contesto di esibizionismo mediatico. Faccio foto, ma non le pubblico. Cammino e sto in silenzio. Vivo ritirata. Ed ora che sono nel bosco questa mia tendenza si sta accentuando. Mi piace non rispondere al telefono, mi piace non essere sull’ attenti, mi sforzo anzi di farlo, ed ogni tanto ignoro appositamente il telefono che squilla, per preservare quella vivacità emotiva ed intellettuale che tanto mi è cara. Se dovessi definirmi potrei dire di essere un grande cervello protetto da capelli biondi. Va bene, biondo scuro. Mi piace nutrire e custodire l’aspetto sottile ed emotivo della vita e dedicarlo a quello che per me è la cosa più importante: creare legami, e poter guardare negli occhi le persone. Mi piacciono le risate a pancia piena e il calore che si crea anche solo scambiandosi un sorriso.

Per novembre penso di organizzare un piccolo corso di cucina vegan conviviale da me in campagna. Per ritrovarsi davanti alla stufa economica accesa a spignattare. Sto pensando al menù.

E poi vi voglio raccontare questo. Sono stata all ’inaugurazione della mostra di Marina Abramovic a Firenze. E poi anche a sentire la sua conferenza al Teatro del Maggio Musicale. Ho preso appunti come fossi una stenografa, cercando di catturare ogni parola, per poterle rileggere nel tempo e comprendere il suo insegnamento. Lei è come una montagna. Ferma forte e presente, radicata nel tempo e solida. Alla fine della conferenza un ragazzo le ha chiesto come poter sopportare il dolore fisico, perché lei nel suo percorso di artista e performer ha sempre lavorato sul corpo e sul dolore. Marina ha detto che siamo tutti capaci di affrontare e sopportare il dolore, che ne esistono tre che si possono definire fondamentali: la sofferenza, il dolore e la morte. Siamo capaci di affrontarli ma non lo facciamo perché ne abbiamo paura. Lei è il nostro specchio, e ci dimostra che ne siamo capaci. E ha ammonito: “la tecnologia ci toglie la capacità di affrontare queste cose ed entrare in contatto con il nostro profondo”.

Penso sia vero. L’uso e soprattutto l’abuso della tecnologia ci porta a galleggiare in un tempo rarefatto, lontano dalla sostanza dell’essere.

Quando cammino cerco di essere qui ed ora, quando cucino cerco di essere qui ed ora, quando impasto, quando metto a fermentare mi infilo nel fluire del tempo. Cucinare è una grande medicina, un riappropriarsi del tempo interiore, del divenire, è un insieme di gesti che mi piace chiamare rituali. Preferisco essere meno frenetica ed esposta, ma esserlo con qualità, con cura, anche perché mi ricordo che queste parole saranno lette da persone, e vorrei poter dialogare con ognuno di voi, entrando in punta di piedi nella vita di ciascuno. E per questo vi ringrazio. Forse sono una blogger atipica, bradipica, che confonde la tastiera con la penna stilografica, ma preferisco essere sincera e darmi il tempo per capire questa dimensione virtuale ed adattarla al mio essere, non viceversa.

Vi consiglio di leggere Attraversare i Muri, la biografia di Marina Abramovic edita da Bompiani, e di andare a vedere la sua mostra a Palazzo Strozzi, tra l’altro novembre sarà un ottimo momento per farlo, perché un performer farà per dodici giorni consecutivi la re-performance di House with an ocean view.
Qui trovate il link di un articolo che ho scritto su di lei per la LibreriaBrac, e qui invece il sito di Palazzo Strozzi, per poter comprare on line i biglietti e saltare la coda.

Marina Abramovic, Attraversare i muri, ed Bompiani.

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